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Conscious Cities Festival 2020

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Energies’ Landscapes
29/10/2020
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Si è concluso lo scorso 23 ottobre il Conscious Cities Festival 2020 con l’incontro Energies’ Landscapes, un panel digitale organizzato da Lombardini22 che ha visto coinvolte diverse provenienze disciplinari, come da nostra tradizione, per affrontare insieme il tema della città che verrà, o meglio della città che ci auguriamo possa davvero prendere forma in un futuro non troppo lontano, se solo sapessimo come, e comunque prima che sia troppo tardi.

Iniziare con tale incipit rende subito evidente quanto a muovere qualsiasi dibattito sulla città contemporanea sia oggi un sentimento di urgenza, e come questo sia particolarmente acuito in questo momento di rocambolesca sospensione dell’esistenza che la pandemia sta provocando. Tanto da spingerci a ripensare la città, i nostri modelli insediativi, il rapporto con la campagna e la natura in relazione ai fondamentali: corpo, alimentazione, energia. Questo il focus di Energies’ Landscapes, argomento che chiude il ciclo di incontri del Conscious Cities Festival con una certa e in qualche modo indispensabile circolarità.

Già nel primo evento di maggio, infatti, Davide Ruzzon – direttore TUNED, Milano e NAAD Master Iuav, Venezia – affermava:

“Per controllare il consumo esterno dobbiamo iniziare dal risparmio energetico del nostro corpo, e un buon progetto urbano che consideri prioritario il contatto con la natura è di grande aiuto”.

Ruzzon riparte da lì richiamando così il fatto che, se in condizioni di riposo un essere umano adulto consuma circa il 25% dell’energia corporea disponibile, la percentuale aumenta in modo più che proporzionale in condizioni di stress dovuto all’iper-artificialità della nostra condizione urbana: un sovraccarico sensoriale e cognitivo che richiede un iperconsumo di energia, prima, e di conseguenza un iperconsumo di cibo e risorse naturali, come compensazione. E quale cibo? Dagli anni 1950 ai 2000 il consumo di carne è passato da 45 a 233 milioni di tonnellate, solo in Cina l’incremento è stato da 13 a 53 kg per persona all’anno in un intervallo molto più breve, d’altra parte nei paesi sviluppati come l’Europa siamo ben piazzati su circa 80 kg. Circa il 60% della produzione di cereali è oggi destinato all’allevamento animale intensivo, l’incidenza globale sui gas climalteranti dei soli bovini è del 7%. Il paesaggio agrario è una diretta conseguenza di questo trend: il modello alimentare determina la forma del rapporto città/campagna (e viceversa, naturalmente). Ma cosa ci induce a perseverare in tale modello iperproteico e impattante?

Cinzia Di Dio, neuroscienziata e ricercatrice presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e Francesca Scazzina, nutrizionista e professoressa Associata di Nutrizione Umana presso il Dipartimento di Scienze degli Alimenti dell’Università degli Studi di Parma, mettono in luce la relazione tra stress e alimentazione.

Cos’è lo stress da un punto di vista neurofisiologico?

È la risposta a una situazione di emergenza, incertezza, pericolo dovuta a diversi fattori – personali, lavorativi, ambientali, fisici – e sollecita direttamente l’attività del sistema nervoso autonomo, parasimpatico (che controlla le risposte in condizioni di riposo) e simpatico (che riguarda il campo di reazioni in condizioni di emergenza). È quest’ultimo che ci interessa – sottolinea Cinzia Di Dio – perché esercita un controllo sul sistema endocrino e sul rilascio ormonale. Una situazione di stress stimola l’attività delle ghiandole surrenali che secernono adrenalina, noradrenalina e glucocorticoidi (cortisolo) che agiscono sul metabolismo del glucosio. Gli effetti sono molto estesi e anche necessari poiché correlati a meccanismi di difesa e preservazione di fronte a un pericolo: un sistema di allerta che si attiva in fase acuta e torna alla condizione basale una volta superata la situazione stressante. Tuttavia è il rilascio ormonale a lungo termine che può causare danni anche irreversibili all’individuo: ipertensione, immunodepressione, danni al tessuto muscolare e alle strutture cerebrali (ippocampo) con effetti sull’apprendimento e sulla memoria. Diverse evidenze sperimentali hanno dimostrato questa tesi (tra cui Kiecold-Glaser).

L’ambiente che ci circonda e il nostro modello di vita non favoriscono di certo l’allentamento delle tensioni, e queste influenzano le nostre abitudini alimentari. Come ha illustrato Francesca Scazzina, lo stress comporta un maggior consumo di calorie nel 35-60% delle persone (c’è anche una percentuale che tende a consumarne meno, ma minoritaria). In ogni caso l‘effetto è uno sbilanciamento di apporto energetico, quantitativo ma soprattutto qualitativo: si tende a consumare alimenti più palatabili, definiti come comfort food (o junk food) perché danno più soddisfazione immediata migliorando l’umore in fase acuta. Ricchi di zuccheri e grassi, sono però anche gli alimenti che danno meno sazietà instaurando un meccanismo di reward system che porta a un circolo vizioso tra appagamento di breve durata e conseguente aumento del consumo, anche inconsapevole. È un modello di alimentazione che incide non solo sulla salute individuale e sulla pressione sanitaria generale ma anche, secondo la EAT-Lancet Commission in Food, Planet, Health (2019), sulla cattiva salute del nostro pianeta, dato il sistema di produzione alimentare che lo sostiene. Si delinea così chiaramente una relazione circolare che investe tutte le scale di riferimento: stress ambientale, abitudini individuali, gestione del territorio, destino ecologico del pianeta.

Come intervenire per affrontare questa circolarità a partire dal nostro quotidiano?

Una catena di conseguenze

L’architetta e filosofa Sarah Robinson sottolinea la portata culturale del cibo. L’atto del mangiare è molto più che un fatto biologico, mette in atto una catena di conseguenze che interessano tutti gli ambiti della nostra vita sociale: pratiche agricole e lavorative, condivisione e legami, modelli di ospitalità e rapporto con il divino nelle diverse culture, sapere in senso lato (“la degustazione è il modo principale in cui arriviamo a conoscere il mondo”). Robinson introduce una prima dimensione progettuale: se è vero che l’ambientazione determina il gesto, l’architetto, il progettista, può contribuire alla trasformazione del nostro rapporto con il cibo rinforzando le connotazioni qualitative della domesticità (e non solo) e accompagnare attivamente il passaggio dalla funzione elementare quantitativa a una pratica atmosferica che investa anche la relazione tra città e paesaggio.

Tuttavia il problema è a scala globale e ha forti sedimentazioni storiche. Alberto Giuntoli, architetto paesaggista e professore all'Università di Firenze, fa un escursus sulle modificazioni del paesaggio agrario italiano ricordando come da secoli sia stato plasmato dall’attività umana, tanto da chiedersi quanto la campagna sia mai stata davvero il luogo della natura. Certo lo è stata in misura maggiore fino all’avvento della meccanizzazione e dell’efficentamento della produzione agricola, che hanno portato alle monocolture intensive e alla perdita di biodiversità (oltre che di valori paesaggistici). Oggi non è rimasto quasi più nulla che non sia intaccato dall’uomo, tanto che la dicotomia metropoli-campagna fatica a mantenere un pieno significato (la mostra Countryside di OMA ne è la registrazione).

Allo stesso tempo, c’è da chiedersi se la città stessa sia ancora il luogo per l’uomo.

Oggi la città occupa oltre il 50% della popolazione umana in conurbazioni paradossali (c’è stato un incremento di urbanizzazione del 78% a fronte di una crescita di popolazione del 33%). Quali sono i suoi margini? Un elemento di frontiera su cui vale la pena investigare sono proprio quei confini irregolari delle aree urbanizzate, detti ecotoni, che hanno un carattere ibrido tra artificio e natura, ma che sono tuttavia difficili da rendere produttivi e spesso diventano terreni incolti e abbandonati (e dove la soluzione è spesso l’edificazione e l’ulteriore consumo di suolo). La sfida è allora un approccio multifunzionale che sappia valorizzare non solo la produzione agricola ma un più ampio ventaglio di servizi ecosistemici, di tipo produttivo e culturale in senso lato, per restituire valore a luoghi altrimenti in difficoltà. Un approccio sperimentale di agricoltura urbana, come nel distretto di Sinqiao a Shanghai per esempio, che ha un crescente appeal ma di cui non è stata ancora dimostrata la sostenibilità, di fronte alla pressione demografica, come effettiva alternativa all’alterazione e distruzione del paesaggio naturale.

Potremo mai sottrarci al destino distopico che da un secolo prefigura il nostro immaginario?

Si tratterebbe molto probabilmente di cambiare, come sostiene Gianfranco Franz, Docente al Dipartimento di Economia e Management dell'Università di Ferrara, tutta la nostra organizzazione sociale. Franz fa ricorso proprio all’immaginario cinematografico per mostrare come città e paesaggio sono la risultante di un insieme di modelli organizzativi, stili di vita individuali e collettivi, ideologie. Da Metropolis di Fritz Lang (1927), che dipinge con incisivo simbolismo e forte carica espressiva il momento della nostra perdita di controllo (o di equilibrio) nella costruzione della città (un film dove non si vede mai né cibo né paesaggio naturale); a Modern Times di Charlie Chaplin (1936), che tratta lo stesso tema dell’alienazione ma in termini comici e più realistici; a Blade Runner di Ridley Scott (1982), anch’esso rappresentativo di un futuro assurdo e alienante, dove la città del potere è una fortezza e il resto una babele di linguaggi, umanità non comunicante, pioggia costante, cibo orientale consumato per strada (ispirato al romanzo del 1968 Do Androids Dream of Electric Sheep? del maestro della fantascienza Philip K. Dick); al primo film ecologista Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, pellicola sperimentale del 1982 il cui titolo è una parola della lingua hopi che significa “vita in tumulto, folle, squilibrata…” ed è un montaggio di immagini che mostrano gli effetti devastanti dell’industrializzazione sulla natura e sugli uomini; fino a Lisbon Story di Wim wenders e la poetica ricerca della purezza del suono. Una serie di moniti che il linguaggio dell’arte ha espresso con anticipatrice sensibilità. E sulle loro metafore Franz pone la domanda:

possiamo tornare a uno stato originario idealizzato?

Ovviamente no, ma allo stesso tempo non possiamo accettare l’ineluttabilità di quelle schizofreniche immagini (per quanto vi siamo già immersi in tutta la loro materiale realizzazione).

Che fare? Non lo sappiamo, non c’è un tracciato chiaro da seguire, se non interrogarci continuamente attraverso il dialogo tra diverse discipline, cercando possibilità nuove nella convergenza di prospettive e saperi diversi per comporre un quadro complesso e difficile: il tema del locale, della circolarità, delle città dei 15 minuti, della dimensione periurbana come driver di possibili ragionamenti, di una nuova declinazione della smart city, di una nuova temporalità. E ancora: della necessità di superare la logica razionalista cartesiana che ci accompagna da tre secoli e mezzo, di andare oltre l’idea di un progresso lineare, di rallentare e liberarci di parole “contaminanti” come crescita, competizione, velocità, efficienza.

Possiamo chiudere richiamando un rapporto di un anno fa, Decoupling Debunked (Luglio 2019) dell’European Environmental Bureau (EEB), in cui proprio quell’efficienza su cui si basa un altro termine cui facciamo affidamento con speranza – la “green growth”, cioè la possibilità di mantenere crescita economica e impatto ambientale in un rapporto inversamente proporzionale – veniva smentita dai fatti: in realtà, i benefici dell’efficienza sembrano solo relativi, temporanei, localizzati. Ciò pone una difficile alternativa: efficienza (ma a condizione che sia globale, assoluta, permanente e rapida!) o sufficienza, ovvero riduzione di scala della produzione, del commercio, dei consumi?

Siamo di fronte un futuro che richiede un cambio di mentalità generalizzato? È un’utopia?

Scarica qui il Position Paper

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October 29, 2020
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October 29, 2020

Conscious Cities Festival 2020

Si è concluso lo scorso 23 ottobre il Conscious Cities Festival 2020 con l’incontro Energies’ Landscapes, un panel digitale organizzato da Lombardini22 che ha visto coinvolte diverse provenienze disciplinari, come da nostra tradizione, per affrontare insieme il tema della città che verrà, o meglio della città che ci auguriamo possa davvero prendere forma in un futuro non troppo lontano, se solo sapessimo come, e comunque prima che sia troppo tardi.

Iniziare con tale incipit rende subito evidente quanto a muovere qualsiasi dibattito sulla città contemporanea sia oggi un sentimento di urgenza, e come questo sia particolarmente acuito in questo momento di rocambolesca sospensione dell’esistenza che la pandemia sta provocando. Tanto da spingerci a ripensare la città, i nostri modelli insediativi, il rapporto con la campagna e la natura in relazione ai fondamentali: corpo, alimentazione, energia. Questo il focus di Energies’ Landscapes, argomento che chiude il ciclo di incontri del Conscious Cities Festival con una certa e in qualche modo indispensabile circolarità.

Già nel primo evento di maggio, infatti, Davide Ruzzon – direttore TUNED, Milano e NAAD Master Iuav, Venezia – affermava:

“Per controllare il consumo esterno dobbiamo iniziare dal risparmio energetico del nostro corpo, e un buon progetto urbano che consideri prioritario il contatto con la natura è di grande aiuto”.

Ruzzon riparte da lì richiamando così il fatto che, se in condizioni di riposo un essere umano adulto consuma circa il 25% dell’energia corporea disponibile, la percentuale aumenta in modo più che proporzionale in condizioni di stress dovuto all’iper-artificialità della nostra condizione urbana: un sovraccarico sensoriale e cognitivo che richiede un iperconsumo di energia, prima, e di conseguenza un iperconsumo di cibo e risorse naturali, come compensazione. E quale cibo? Dagli anni 1950 ai 2000 il consumo di carne è passato da 45 a 233 milioni di tonnellate, solo in Cina l’incremento è stato da 13 a 53 kg per persona all’anno in un intervallo molto più breve, d’altra parte nei paesi sviluppati come l’Europa siamo ben piazzati su circa 80 kg. Circa il 60% della produzione di cereali è oggi destinato all’allevamento animale intensivo, l’incidenza globale sui gas climalteranti dei soli bovini è del 7%. Il paesaggio agrario è una diretta conseguenza di questo trend: il modello alimentare determina la forma del rapporto città/campagna (e viceversa, naturalmente). Ma cosa ci induce a perseverare in tale modello iperproteico e impattante?

Cinzia Di Dio, neuroscienziata e ricercatrice presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e Francesca Scazzina, nutrizionista e professoressa Associata di Nutrizione Umana presso il Dipartimento di Scienze degli Alimenti dell’Università degli Studi di Parma, mettono in luce la relazione tra stress e alimentazione.

Cos’è lo stress da un punto di vista neurofisiologico?

È la risposta a una situazione di emergenza, incertezza, pericolo dovuta a diversi fattori – personali, lavorativi, ambientali, fisici – e sollecita direttamente l’attività del sistema nervoso autonomo, parasimpatico (che controlla le risposte in condizioni di riposo) e simpatico (che riguarda il campo di reazioni in condizioni di emergenza). È quest’ultimo che ci interessa – sottolinea Cinzia Di Dio – perché esercita un controllo sul sistema endocrino e sul rilascio ormonale. Una situazione di stress stimola l’attività delle ghiandole surrenali che secernono adrenalina, noradrenalina e glucocorticoidi (cortisolo) che agiscono sul metabolismo del glucosio. Gli effetti sono molto estesi e anche necessari poiché correlati a meccanismi di difesa e preservazione di fronte a un pericolo: un sistema di allerta che si attiva in fase acuta e torna alla condizione basale una volta superata la situazione stressante. Tuttavia è il rilascio ormonale a lungo termine che può causare danni anche irreversibili all’individuo: ipertensione, immunodepressione, danni al tessuto muscolare e alle strutture cerebrali (ippocampo) con effetti sull’apprendimento e sulla memoria. Diverse evidenze sperimentali hanno dimostrato questa tesi (tra cui Kiecold-Glaser).

L’ambiente che ci circonda e il nostro modello di vita non favoriscono di certo l’allentamento delle tensioni, e queste influenzano le nostre abitudini alimentari. Come ha illustrato Francesca Scazzina, lo stress comporta un maggior consumo di calorie nel 35-60% delle persone (c’è anche una percentuale che tende a consumarne meno, ma minoritaria). In ogni caso l‘effetto è uno sbilanciamento di apporto energetico, quantitativo ma soprattutto qualitativo: si tende a consumare alimenti più palatabili, definiti come comfort food (o junk food) perché danno più soddisfazione immediata migliorando l’umore in fase acuta. Ricchi di zuccheri e grassi, sono però anche gli alimenti che danno meno sazietà instaurando un meccanismo di reward system che porta a un circolo vizioso tra appagamento di breve durata e conseguente aumento del consumo, anche inconsapevole. È un modello di alimentazione che incide non solo sulla salute individuale e sulla pressione sanitaria generale ma anche, secondo la EAT-Lancet Commission in Food, Planet, Health (2019), sulla cattiva salute del nostro pianeta, dato il sistema di produzione alimentare che lo sostiene. Si delinea così chiaramente una relazione circolare che investe tutte le scale di riferimento: stress ambientale, abitudini individuali, gestione del territorio, destino ecologico del pianeta.

Come intervenire per affrontare questa circolarità a partire dal nostro quotidiano?

Una catena di conseguenze

L’architetta e filosofa Sarah Robinson sottolinea la portata culturale del cibo. L’atto del mangiare è molto più che un fatto biologico, mette in atto una catena di conseguenze che interessano tutti gli ambiti della nostra vita sociale: pratiche agricole e lavorative, condivisione e legami, modelli di ospitalità e rapporto con il divino nelle diverse culture, sapere in senso lato (“la degustazione è il modo principale in cui arriviamo a conoscere il mondo”). Robinson introduce una prima dimensione progettuale: se è vero che l’ambientazione determina il gesto, l’architetto, il progettista, può contribuire alla trasformazione del nostro rapporto con il cibo rinforzando le connotazioni qualitative della domesticità (e non solo) e accompagnare attivamente il passaggio dalla funzione elementare quantitativa a una pratica atmosferica che investa anche la relazione tra città e paesaggio.

Tuttavia il problema è a scala globale e ha forti sedimentazioni storiche. Alberto Giuntoli, architetto paesaggista e professore all'Università di Firenze, fa un escursus sulle modificazioni del paesaggio agrario italiano ricordando come da secoli sia stato plasmato dall’attività umana, tanto da chiedersi quanto la campagna sia mai stata davvero il luogo della natura. Certo lo è stata in misura maggiore fino all’avvento della meccanizzazione e dell’efficentamento della produzione agricola, che hanno portato alle monocolture intensive e alla perdita di biodiversità (oltre che di valori paesaggistici). Oggi non è rimasto quasi più nulla che non sia intaccato dall’uomo, tanto che la dicotomia metropoli-campagna fatica a mantenere un pieno significato (la mostra Countryside di OMA ne è la registrazione).

Allo stesso tempo, c’è da chiedersi se la città stessa sia ancora il luogo per l’uomo.

Oggi la città occupa oltre il 50% della popolazione umana in conurbazioni paradossali (c’è stato un incremento di urbanizzazione del 78% a fronte di una crescita di popolazione del 33%). Quali sono i suoi margini? Un elemento di frontiera su cui vale la pena investigare sono proprio quei confini irregolari delle aree urbanizzate, detti ecotoni, che hanno un carattere ibrido tra artificio e natura, ma che sono tuttavia difficili da rendere produttivi e spesso diventano terreni incolti e abbandonati (e dove la soluzione è spesso l’edificazione e l’ulteriore consumo di suolo). La sfida è allora un approccio multifunzionale che sappia valorizzare non solo la produzione agricola ma un più ampio ventaglio di servizi ecosistemici, di tipo produttivo e culturale in senso lato, per restituire valore a luoghi altrimenti in difficoltà. Un approccio sperimentale di agricoltura urbana, come nel distretto di Sinqiao a Shanghai per esempio, che ha un crescente appeal ma di cui non è stata ancora dimostrata la sostenibilità, di fronte alla pressione demografica, come effettiva alternativa all’alterazione e distruzione del paesaggio naturale.

Potremo mai sottrarci al destino distopico che da un secolo prefigura il nostro immaginario?

Si tratterebbe molto probabilmente di cambiare, come sostiene Gianfranco Franz, Docente al Dipartimento di Economia e Management dell'Università di Ferrara, tutta la nostra organizzazione sociale. Franz fa ricorso proprio all’immaginario cinematografico per mostrare come città e paesaggio sono la risultante di un insieme di modelli organizzativi, stili di vita individuali e collettivi, ideologie. Da Metropolis di Fritz Lang (1927), che dipinge con incisivo simbolismo e forte carica espressiva il momento della nostra perdita di controllo (o di equilibrio) nella costruzione della città (un film dove non si vede mai né cibo né paesaggio naturale); a Modern Times di Charlie Chaplin (1936), che tratta lo stesso tema dell’alienazione ma in termini comici e più realistici; a Blade Runner di Ridley Scott (1982), anch’esso rappresentativo di un futuro assurdo e alienante, dove la città del potere è una fortezza e il resto una babele di linguaggi, umanità non comunicante, pioggia costante, cibo orientale consumato per strada (ispirato al romanzo del 1968 Do Androids Dream of Electric Sheep? del maestro della fantascienza Philip K. Dick); al primo film ecologista Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, pellicola sperimentale del 1982 il cui titolo è una parola della lingua hopi che significa “vita in tumulto, folle, squilibrata…” ed è un montaggio di immagini che mostrano gli effetti devastanti dell’industrializzazione sulla natura e sugli uomini; fino a Lisbon Story di Wim wenders e la poetica ricerca della purezza del suono. Una serie di moniti che il linguaggio dell’arte ha espresso con anticipatrice sensibilità. E sulle loro metafore Franz pone la domanda:

possiamo tornare a uno stato originario idealizzato?

Ovviamente no, ma allo stesso tempo non possiamo accettare l’ineluttabilità di quelle schizofreniche immagini (per quanto vi siamo già immersi in tutta la loro materiale realizzazione).

Che fare? Non lo sappiamo, non c’è un tracciato chiaro da seguire, se non interrogarci continuamente attraverso il dialogo tra diverse discipline, cercando possibilità nuove nella convergenza di prospettive e saperi diversi per comporre un quadro complesso e difficile: il tema del locale, della circolarità, delle città dei 15 minuti, della dimensione periurbana come driver di possibili ragionamenti, di una nuova declinazione della smart city, di una nuova temporalità. E ancora: della necessità di superare la logica razionalista cartesiana che ci accompagna da tre secoli e mezzo, di andare oltre l’idea di un progresso lineare, di rallentare e liberarci di parole “contaminanti” come crescita, competizione, velocità, efficienza.

Possiamo chiudere richiamando un rapporto di un anno fa, Decoupling Debunked (Luglio 2019) dell’European Environmental Bureau (EEB), in cui proprio quell’efficienza su cui si basa un altro termine cui facciamo affidamento con speranza – la “green growth”, cioè la possibilità di mantenere crescita economica e impatto ambientale in un rapporto inversamente proporzionale – veniva smentita dai fatti: in realtà, i benefici dell’efficienza sembrano solo relativi, temporanei, localizzati. Ciò pone una difficile alternativa: efficienza (ma a condizione che sia globale, assoluta, permanente e rapida!) o sufficienza, ovvero riduzione di scala della produzione, del commercio, dei consumi?

Siamo di fronte un futuro che richiede un cambio di mentalità generalizzato? È un’utopia?

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