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Il racconto di FORESIGHT2021

Data Centers of the future are here

Cogliere le opportunità dell'imprevisto
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La terza edizione di FORESIGHT, il summit che ogni anno Lombardini22 organizza e dedica alla propria comunità del Real Estate, si è svolta il 21 ottobre 2021 in una cornice speciale, tutta dedicata al progetto: l’ADI Design Museum Compasso d’Oro di Milano.
Come sempre abbiamo cercato di disegnare mappe di riferimento con cui interpretare il presente e orientarci nelle scelte future in una prospettiva di lungo periodo, e l’abbiamo fatto grazie a uno straordinario panel di ospiti. Pur mantenendo l’attenzione sul nostro mondo – l’immobiliare, la città, l’ambiente costruito –, abbiamo affrontato i temi che ci stanno a cuore da diversi punti di vista, suggerendo un comune tema di fondo: l’inaspettato (Unforeseen), non solo come ciò che contraddistingue l’incertezza della situazione attuale, ma come elemento strutturale della contemporaneità, da accogliere e da cui imparare.

Con Barbara Cominelli, Giovanna Della Posta, Johnny Dotti, Francesco Farinetti, Alessandro Mele, Alessandro Rosina e Mirko Zardini si è composto un mosaico complesso, aperto da Franco Guidi, Ad e Partner Lombardini22, e condotto da Paola Dezza, giornalista de Il Sole 24 Ore: abbiamo parlato di demografia e città, formazione e modelli di apprendimento, abitare contestuale e logica finanziaria, rapporto pubblico-privato, futuro del lavoro, modelli di consumo, ruolo dell’architettura e delle sue istituzioni nella costruzione di un dibattito sempre più necessario, aperto e multidisciplinare.

Ma soprattutto abbiamo creato un’occasione di incontro reale, fisico (finalmente!): ci eravamo lasciati lo scorso anno con il desiderio di rivederci in presenza, con FORESIGHT/Unforeseen 2021 ci siamo riusciti, pur immersi in una situazione ancora pandemica, confortati dalla speranza di una ripartenza costruttiva anche grazie alle condizioni storicamente eccezionali che l’Italia e l’Europa si avviano a sfruttare. Ma come ripartire? Cosa è cambiato durante questi lunghi mesi? Cosa abbiamo imparato misurandoci con un inaspettato che ancora non sappiamo se definire un’evoluzione o una vera e propria rivoluzione? E cosa guiderà le nostre scelte?

Evoluzione o rivoluzione? Ibridazione

“Abbiamo imparato l’inter-indipendenza, afferma Franco Guidi in apertura dell’incontro. Un concetto che sembra un ossimoro, ma che ben esprime il sistema di relazioni che ci rende legati e liberi insieme: legati perché da soli non possiamo far molto, liberi perché responsabili delle nostre scelte individuali e delle loro conseguenze sulla collettività. “Ed è un fattore di umanità”: tema tanto più fondamentale quanto più i grandi driver – demografico, ambientale, tecnologico – cambieranno la natura delle nostre relazioni. Non sappiamo se ciò sia evoluzione o rivoluzione, ma siamo certi di un altro termine – ibridazione – che sempre più ci accompagnerà nei prossimi anni. Che forme assumerà l’ibridazione fisico-digitale? Oggi abbiamo imparato a lavorare e studiare da remoto, ma la guarderemo con sospetto se domani sarà solo disintermediazione. Se invece porterà a un miglioramento delle relazioni umane, sarà da incoraggiare. Conclude Guidi:

Credo che il criterio generale più rilevante per le nostre scelte sia: quali elementi di umanità sono implicati nelle decisioni che prendiamo?”

Ma quanta (e quale) umanità?

È il grande tema demografico che Alessandro Rosina, Professore ordinario di Demografia e Statistica sociale, ci ha descritto con un’efficace frase di sintesi:

“Il passaggio dal XX al XXI secolo è un passaggio dalla quantità alla qualità.”

Se il Novecento è stato caratterizzato dall’idea della crescita (PIL, popolazione, longevità), il nostro secolo sarà segnato da un tema molto diverso: la popolazione mondiale smetterà di aumentare, certo in modo differenziato sia geograficamente sia per classi di età. Nel mondo occidentale questo processo è già iniziato, in Italia poi… Secondo l’ultimo Rapporto Annuale Istat, il 2020 ha segnato un nuovo record negativo delle nascite (-3,8% rispetto al 2019) confermando una tendenza di lungo periodo (rispetto al 2008 siamo a -30%) che, insieme con l’aumento delle aspettative di vita, ci porta verso ciò che con un neologismo Rosina definisce “degiovanimento” della società: avremo più anziani e meno giovani ma anche, grazie ai flussi migratori, più immigrati. Un cambiamento profondo che sta generando nuove composizioni demografiche, e nuove potenziali domande.

Città attrattive

In questo processo di “decrescita” le città sono però in controtendenza: sono cresciute, ma devono gestire l’onere del loro sviluppo in altri termini, non più quantitativi. Ovvero, con la capacità di dare spazio al nuovo (inteso come ciò che si aggiunge al presente) con qualità. Un nuovo molteplice, che si declina in nuove generazioni (già presenti), nuovi arrivati (da includere nei processi in modo non emergenziale), nuove fasi della vita (dovute alla maggior longevità). Ciò richiede strategie più articolate, che sappiano incontrare e valorizzare diverse sensibilità e preferenze in modo innovativo, offrendo non solo opportunità di lavoro non presenti altrove ma più ampie condizioni di benessere: una nuova qualità dell’abitare, del consumo, dei servizi, della salute, dell’ambiente che sappia abbracciare la pienezza delle scelte di vita. Essere attrattive, soprattutto nei confronti dei giovani, è necessario per alimentare l’innovazione e gli equilibri intergenerazionali, ma ciò significa per le città gestire anche conseguenze inaspettate e contraddizioni.

Milano, Berlino

Emblematico il caso di Milano: una città che negli ultimi anni ha diffuso un clima di aspettative positive crescenti, espresso una forte attrattività giovanile (fascia 25-39 anni), valorizzato la componente femminile con tassi di occupazione allineati alla media europea. Tuttavia Milano si è isolata dal resto del Paese privilegiando la competizione europea, in un confronto peraltro non del tutto lusinghiero: poiché proprio rispetto all’Europa offre ai giovani condizioni oggettive inferiori, e alle donne un più limitato spettro di scelte di vita: il tasso di natalità, minore rispetto alla media europea, è un indice significativo. Non a caso Rosina cita un altro riferimento emblematico, Berlino, che ha saputo non solo costruire opportunità e attrarre capitale umano qualificato da inserire nei processi, ma anche favorire progetti di vita in senso lato: di nuovo, l’alto indice di natalità berlinese ne è la dimostrazione. Non che poi manchino attriti, se è vero che un recente referendum ha visto i berlinesi esprimersi per l’esproprio pubblico (parola davvero inaspettata di questi tempi, o perlomeno desueta) di oltre 240 mila alloggi privati di grandi gruppi immobiliari per rimetterli in circolo a prezzi calmierati. Anche qui, si tratta di aggredire controindicazioni e conseguenze (più o meno inattese) – come i processi di gentrificazione – che di fatto sono effetti collaterali dell’attrattività. Nella gestione di questa complessità, il Real Estate può avere un ruolo centrale.

50 sfumature di Hybrid

Sul futuro delle città, del lavoro, del Real Estate, un quadro ricco di dati è offerto da Barbara Cominelli, Ceo di JLL Italy. Sul tema del lavoro emerge una situazione molto più sfumata di quanto si poteva immaginare nel pieno della pandemia. Lo scorso anno, sotto la spinta del lockdown, il 50% delle aziende prevedeva una forte riduzione di uffici fisici: oggi sono solo il 15/20%. Saremo senz’altro ibridi, ma in modalità molto differenziate e tuttora oggetto di sperimentazioni: anche per effetto di un’“illusione di produttività”, indotta da uno smart working inizialmente affrontato con grande spirito di abnegazione, che ha ceduto il posto a un affaticamento relazionale. Mentre le riunioni remote continuano ad aumentare, le interazioni si “impoveriscono”, rivelando difficoltà a uscire dai rapporti rassicuranti con i propri team ristretti: sul lungo termine, un freno alla produttività e all’innovazione. In questo quadro gli uffici fisici non solo rimarranno, ma assolveranno a un nuovo mandato: trasformarsi sempre più in hub attrattivi, luoghi strategici di socializzazione e collaborazioni innovative.

“Gli uffici fisici non sono più spazi dove andare ma veri e propri ‘tools di business’.”

Tools in cui sostenibilità e tecnologia sono fondamentali (dobbiamo abbattere del 60% le emissioni generate dagli immobili, una sfida di enorme portata), anche per affrontare al meglio la "guerra dei talenti", un tema sempre caldo ma oggi intensificato dal fenomeno della "great resignation" (che coinvolge il 41% della forza lavoro negli USA).


Ciò che vale per le aziende vale per le città e i territori: che dovranno offrire non solo infrastrutture e connettività, ma innovazione e attrattività nei confronti del capitale umano, cioè talenti, a loro volta attrattori degli stessi “occupiers” che ambiscono ad essere perni dei processi di rigenerazione urbana, inserendosi nello sviluppo di poli innovativi che, per essere davvero tali, richiedono sinergie tra investitori privati e attore pubblico, anche su nuove basi di fiducia reciproca.

Fiducia pubblica e privata

Un rinnovato rapporto pubblico-privato, orientato al bene comune, costruito sulla fiducia e supportato da chiare logiche finanziarie è il tema con cui Giovanna Della Posta ha introdotto il suo intervento: è una testimonianza, di fatto, ma di un certo peso dato che in qualità di Ad Invimit Sgr si trova a gestire circa due miliardi di euro in asset immobiliari pubblici, ma stimati complessivamente in oltre 300 miliardi (più che un PNRR!). Anche se di non facile conquista al mercato reale, si tratta di un patrimonio dal potenziale straordinario il cui destino richiederebbe davvero una visione lungimirante e condivisa“In Invimit giochiamo nella nazionale” sostiene Della Posta – e soprattutto una fiducia tra attori che tradizionalmente (e per qualche inefficienza storica) si guardano con una certa mutua perplessità. Eppure, si può pensare che quel patrimonio pubblico possa riattivarsi e rispondere ad attuali esigenze con nuovi modelli di progettualità:

“Il mandato originario di Invimit era abbattere il debito pubblico tramite dismissioni, la sfida invece è anche stata di immaginare progetti di sviluppo e valorizzazione.”

Per esempio, progetti di Senior Living che integrano residenza, servizi di caring (in partnership con compagnie assicurative) e spazi per l’infanzia in ex colonie estive per i bambini dei dipendenti pubblici, inutilizzate da anni (su concept, sia detto en passant, di Lombardini22). Al di là del caso specifico, che può essere una risposta puntuale a domande e sensibilità provenienti dalle nuove fasi della vita dovute alla longevità (come diceva Rosina), più in generale è una sfida che manda un segnale di desiderio di “riscatto” dell’attore pubblico, un nuovo (o ritrovato) posizionamento con un ruolo di guida e orientamento, di “apripista” dei processi, capace di far convergere urgenze pubbliche e soggetti privati in una possibile strategia (e bene) comune.

Nuovi format del consumo

Partire da luoghi dimenticati cui ridare vita caratterizza l’approccio di Eataly dalla sua prima sede. Oggi un nuovo format di retail park della famiglia Farinetti ne è la naturale evoluzione: un progetto che unisce alla filiera alimentare, il Food, i settori Fashion e Furniture unendo vendita, ristorazione e didattica in un edificio adiacente al primo Eataly torinese. Ne ha parlato Francesco Farinetti, Ad di Green Pea, raccontando un nuovo modello di consumo sostenibile, qualità che il format cerca di comunicare, e naturalmente perseguire, a 360 gradi. Ma anche riconoscendo che in qualsiasi operazione che si promuove “green” i rischi di greenwashing sono sempre dietro l’angolo, da affrontare con trasparenza della comunicazione e misurando azioni concrete.

L’impatto zero non esiste ma un nuovo consumo consapevole è possibile – dichiara –. Abbiamo selezionato 150 partner sulla base di un manifesto, con loro monitoriamo la storia di ognuno e verifichiamo gli obiettivi su tutta la filiera.”

Per Farinetti la sostenibilità è “un percorso da fare insieme”. Per questo inserire un settore didattico in un format di retail è un’operazione interessante: ogni percorso comune richiede diffusione di conoscenza, e una visione partecipata, condivisa e collettivamente intelligibile. Come costruirla?

Costruire reti di conoscenza

Quali strumenti e conoscenze abbiamo a disposizione per tale visione? E attraverso quale dibattito pubblico? Per Mirko Zardini, architetto, autore e curatore, in questa discussione dovrebbero essere strutturalmente coinvolte le istituzioni, in particolare quelle d’architettura incaricate della formazione, conservazione, divulgazione del sapere disciplinare: scuole, musei, biblioteche, archivi… Perché sono importanti? Perché grazie al bacino di idee che custodiscono ci aiutano a ragionare sul presente in modo più critico e consapevole. A condizione che ripensino il loro mandato, si aprano alla produzione di conoscenza e, soprattutto, si mettano in rete tra di loro.

Ci sono due modelli con cui le istituzioni possono operare: pensare l’architettura come prassi per la soluzione dei problemi (riconducibile al NAi – Netherlands Architecture Institute, di Ole Bouman); oppure, leggere l’architettura come parte dei problemi e del conflitto che investe tutta la società (è l’approccio del CCA – Canadian Centre of Architecture di Montreal di cui Zardini stesso è stato Direttore per 15 anni). In altri termini, l’architettura non offre soluzioni, ma all’interno del conflitto in cui è coinvolta

“l’architettura deve scegliere da che parte stare, quale direzione prendere, quali valori sostenere, ma soprattutto contribuire a ridefinire i problemi.”

Il che significa ridefinire il ruolo della cultura architettonica anche rispetto alla crisi attuale e alle idee che vengono proposte. La stessa “città dei 15 minuti” è un’idea non nuova e certamente più problematica e complessa (dalle visioni di Leon Krier e di Oswald Mathias Ungers per Berlino, al New Urbanism americano) di come oggi ci viene venduta. E la stessa didattica a distanza (DAD) può essere vista come un impoverimento rispetto ad altri modelli, ugualmente a distanza, esistenti nei nostri archivi delle idee: come la Open University, nata nel 1969, un sistema misto, aperto alle persone, ai luoghi, ai metodi… Allora rimettere in circolo le idee, interrogandole, e produrre conoscenza nuova dev’essere il mandato delle istituzioni, sempre con l’avvertenza che:

“Non ci sono soluzioni, ma modi diversi di porre le domande.”

Un’altra idea dell’abitare

Con lo stesso invito Johnny Dotti, imprenditore sociale e pedagogista, si è rivolto alla platea nell’intervento più dirompente e critico di tutto l’incontro. Porre nuove domande condivise significa uscire dalla luce rassicurante dei nostri schemi consolidati, dei “know how”, dell’iper-specializzazione, delle etichette con cui abbiamo progressivamente classificato negli ultimi cento anni le forme dell’abitare: alloggi (cioè “funzioni”) e appartamenti (ovvero “separazioni”), e poi social housing, co-living, student housing, senior living, luxury living… un’ubriacatura di formule che sembrano anteporre agli abitanti le “scatole” che li ospiteranno. Ma prima di fare le scatole, bisogna vivere la realtà degli abitanti:

“Prima vengono gli abitanti poi viene l’abitazione, perché è l’abitante che dà senso all’abitazione.”

Ovvero, bisogna costruire non appartamenti ma “nidi e nodi”, luoghi di intimità e attraversamento insieme, cioè case come contesti aperti che favoriscano le relazioni tra le persone. Serve una diversa idea dell’abitare.

La testimonianza che offre il modello più vicino alle parole di Dotti la porta sul palco Alessandro Mele, Direttore Generale di Cometa, innovativa realtà sociale di Como che si occupa di minori e famiglie attraverso l’accoglienza, l’educazione e il lavoro.

Una città nella città, un luogo dove abitare la bellezza” sono i termini con cui è descritta, così come “desiderio ed espressione di sé” descrivono l’aspetto formativo e lavorativo. Aspetti, questi, focalizzati anche nel tema degli ITS – nelle vesti di Vice Presidente di ITS Italy – che offrono bienni di specializzazione tecnica come contributo a colmare una carenza cronica, in Italia, di tecnici specializzati (in un Paese che è la seconda manifattura d’Europa con solo il 27,8% di giovani laureati tra 30-34 anni) ma in modo, precisa Mele, non addestrativo.

Tra visione poetica e concretezza, qui il linguaggio di FORESIGHT cambia, si fa più suggestivo (ma anche sferzante per la platea).

Se un’altra idea dell’abitare è possibile, non può che partire dagli abitanti, prima che dalle forme costruite.

Mai come qui sono appropriate le parole dell’architetto e urbanista danese Jan Gehl:

First life, then spaces, then buildings – the other way around never works.”

Ma per fare questo bisogna uscire dal cono di luce, sostiene Dotti, andare nel buio e rischiare percorsi che non conosciamo (o essere davvero contemporanei nel senso di Agamben: “Non lasciarsi accecare dalle luci del secolo e riuscire a scorgere in esse la parte dell’ombra”): in altre parole reimparare di nuovo ad abitare il mondo.

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Il racconto di FORESIGHT2021

La terza edizione di FORESIGHT, il summit che ogni anno Lombardini22 organizza e dedica alla propria comunità del Real Estate, si è svolta il 21 ottobre 2021 in una cornice speciale, tutta dedicata al progetto: l’ADI Design Museum Compasso d’Oro di Milano.
Come sempre abbiamo cercato di disegnare mappe di riferimento con cui interpretare il presente e orientarci nelle scelte future in una prospettiva di lungo periodo, e l’abbiamo fatto grazie a uno straordinario panel di ospiti. Pur mantenendo l’attenzione sul nostro mondo – l’immobiliare, la città, l’ambiente costruito –, abbiamo affrontato i temi che ci stanno a cuore da diversi punti di vista, suggerendo un comune tema di fondo: l’inaspettato (Unforeseen), non solo come ciò che contraddistingue l’incertezza della situazione attuale, ma come elemento strutturale della contemporaneità, da accogliere e da cui imparare.

Con Barbara Cominelli, Giovanna Della Posta, Johnny Dotti, Francesco Farinetti, Alessandro Mele, Alessandro Rosina e Mirko Zardini si è composto un mosaico complesso, aperto da Franco Guidi, Ad e Partner Lombardini22, e condotto da Paola Dezza, giornalista de Il Sole 24 Ore: abbiamo parlato di demografia e città, formazione e modelli di apprendimento, abitare contestuale e logica finanziaria, rapporto pubblico-privato, futuro del lavoro, modelli di consumo, ruolo dell’architettura e delle sue istituzioni nella costruzione di un dibattito sempre più necessario, aperto e multidisciplinare.

Ma soprattutto abbiamo creato un’occasione di incontro reale, fisico (finalmente!): ci eravamo lasciati lo scorso anno con il desiderio di rivederci in presenza, con FORESIGHT/Unforeseen 2021 ci siamo riusciti, pur immersi in una situazione ancora pandemica, confortati dalla speranza di una ripartenza costruttiva anche grazie alle condizioni storicamente eccezionali che l’Italia e l’Europa si avviano a sfruttare. Ma come ripartire? Cosa è cambiato durante questi lunghi mesi? Cosa abbiamo imparato misurandoci con un inaspettato che ancora non sappiamo se definire un’evoluzione o una vera e propria rivoluzione? E cosa guiderà le nostre scelte?

Evoluzione o rivoluzione? Ibridazione

“Abbiamo imparato l’inter-indipendenza, afferma Franco Guidi in apertura dell’incontro. Un concetto che sembra un ossimoro, ma che ben esprime il sistema di relazioni che ci rende legati e liberi insieme: legati perché da soli non possiamo far molto, liberi perché responsabili delle nostre scelte individuali e delle loro conseguenze sulla collettività. “Ed è un fattore di umanità”: tema tanto più fondamentale quanto più i grandi driver – demografico, ambientale, tecnologico – cambieranno la natura delle nostre relazioni. Non sappiamo se ciò sia evoluzione o rivoluzione, ma siamo certi di un altro termine – ibridazione – che sempre più ci accompagnerà nei prossimi anni. Che forme assumerà l’ibridazione fisico-digitale? Oggi abbiamo imparato a lavorare e studiare da remoto, ma la guarderemo con sospetto se domani sarà solo disintermediazione. Se invece porterà a un miglioramento delle relazioni umane, sarà da incoraggiare. Conclude Guidi:

Credo che il criterio generale più rilevante per le nostre scelte sia: quali elementi di umanità sono implicati nelle decisioni che prendiamo?”

Ma quanta (e quale) umanità?

È il grande tema demografico che Alessandro Rosina, Professore ordinario di Demografia e Statistica sociale, ci ha descritto con un’efficace frase di sintesi:

“Il passaggio dal XX al XXI secolo è un passaggio dalla quantità alla qualità.”

Se il Novecento è stato caratterizzato dall’idea della crescita (PIL, popolazione, longevità), il nostro secolo sarà segnato da un tema molto diverso: la popolazione mondiale smetterà di aumentare, certo in modo differenziato sia geograficamente sia per classi di età. Nel mondo occidentale questo processo è già iniziato, in Italia poi… Secondo l’ultimo Rapporto Annuale Istat, il 2020 ha segnato un nuovo record negativo delle nascite (-3,8% rispetto al 2019) confermando una tendenza di lungo periodo (rispetto al 2008 siamo a -30%) che, insieme con l’aumento delle aspettative di vita, ci porta verso ciò che con un neologismo Rosina definisce “degiovanimento” della società: avremo più anziani e meno giovani ma anche, grazie ai flussi migratori, più immigrati. Un cambiamento profondo che sta generando nuove composizioni demografiche, e nuove potenziali domande.

Città attrattive

In questo processo di “decrescita” le città sono però in controtendenza: sono cresciute, ma devono gestire l’onere del loro sviluppo in altri termini, non più quantitativi. Ovvero, con la capacità di dare spazio al nuovo (inteso come ciò che si aggiunge al presente) con qualità. Un nuovo molteplice, che si declina in nuove generazioni (già presenti), nuovi arrivati (da includere nei processi in modo non emergenziale), nuove fasi della vita (dovute alla maggior longevità). Ciò richiede strategie più articolate, che sappiano incontrare e valorizzare diverse sensibilità e preferenze in modo innovativo, offrendo non solo opportunità di lavoro non presenti altrove ma più ampie condizioni di benessere: una nuova qualità dell’abitare, del consumo, dei servizi, della salute, dell’ambiente che sappia abbracciare la pienezza delle scelte di vita. Essere attrattive, soprattutto nei confronti dei giovani, è necessario per alimentare l’innovazione e gli equilibri intergenerazionali, ma ciò significa per le città gestire anche conseguenze inaspettate e contraddizioni.

Milano, Berlino

Emblematico il caso di Milano: una città che negli ultimi anni ha diffuso un clima di aspettative positive crescenti, espresso una forte attrattività giovanile (fascia 25-39 anni), valorizzato la componente femminile con tassi di occupazione allineati alla media europea. Tuttavia Milano si è isolata dal resto del Paese privilegiando la competizione europea, in un confronto peraltro non del tutto lusinghiero: poiché proprio rispetto all’Europa offre ai giovani condizioni oggettive inferiori, e alle donne un più limitato spettro di scelte di vita: il tasso di natalità, minore rispetto alla media europea, è un indice significativo. Non a caso Rosina cita un altro riferimento emblematico, Berlino, che ha saputo non solo costruire opportunità e attrarre capitale umano qualificato da inserire nei processi, ma anche favorire progetti di vita in senso lato: di nuovo, l’alto indice di natalità berlinese ne è la dimostrazione. Non che poi manchino attriti, se è vero che un recente referendum ha visto i berlinesi esprimersi per l’esproprio pubblico (parola davvero inaspettata di questi tempi, o perlomeno desueta) di oltre 240 mila alloggi privati di grandi gruppi immobiliari per rimetterli in circolo a prezzi calmierati. Anche qui, si tratta di aggredire controindicazioni e conseguenze (più o meno inattese) – come i processi di gentrificazione – che di fatto sono effetti collaterali dell’attrattività. Nella gestione di questa complessità, il Real Estate può avere un ruolo centrale.

50 sfumature di Hybrid

Sul futuro delle città, del lavoro, del Real Estate, un quadro ricco di dati è offerto da Barbara Cominelli, Ceo di JLL Italy. Sul tema del lavoro emerge una situazione molto più sfumata di quanto si poteva immaginare nel pieno della pandemia. Lo scorso anno, sotto la spinta del lockdown, il 50% delle aziende prevedeva una forte riduzione di uffici fisici: oggi sono solo il 15/20%. Saremo senz’altro ibridi, ma in modalità molto differenziate e tuttora oggetto di sperimentazioni: anche per effetto di un’“illusione di produttività”, indotta da uno smart working inizialmente affrontato con grande spirito di abnegazione, che ha ceduto il posto a un affaticamento relazionale. Mentre le riunioni remote continuano ad aumentare, le interazioni si “impoveriscono”, rivelando difficoltà a uscire dai rapporti rassicuranti con i propri team ristretti: sul lungo termine, un freno alla produttività e all’innovazione. In questo quadro gli uffici fisici non solo rimarranno, ma assolveranno a un nuovo mandato: trasformarsi sempre più in hub attrattivi, luoghi strategici di socializzazione e collaborazioni innovative.

“Gli uffici fisici non sono più spazi dove andare ma veri e propri ‘tools di business’.”

Tools in cui sostenibilità e tecnologia sono fondamentali (dobbiamo abbattere del 60% le emissioni generate dagli immobili, una sfida di enorme portata), anche per affrontare al meglio la "guerra dei talenti", un tema sempre caldo ma oggi intensificato dal fenomeno della "great resignation" (che coinvolge il 41% della forza lavoro negli USA).


Ciò che vale per le aziende vale per le città e i territori: che dovranno offrire non solo infrastrutture e connettività, ma innovazione e attrattività nei confronti del capitale umano, cioè talenti, a loro volta attrattori degli stessi “occupiers” che ambiscono ad essere perni dei processi di rigenerazione urbana, inserendosi nello sviluppo di poli innovativi che, per essere davvero tali, richiedono sinergie tra investitori privati e attore pubblico, anche su nuove basi di fiducia reciproca.

Fiducia pubblica e privata

Un rinnovato rapporto pubblico-privato, orientato al bene comune, costruito sulla fiducia e supportato da chiare logiche finanziarie è il tema con cui Giovanna Della Posta ha introdotto il suo intervento: è una testimonianza, di fatto, ma di un certo peso dato che in qualità di Ad Invimit Sgr si trova a gestire circa due miliardi di euro in asset immobiliari pubblici, ma stimati complessivamente in oltre 300 miliardi (più che un PNRR!). Anche se di non facile conquista al mercato reale, si tratta di un patrimonio dal potenziale straordinario il cui destino richiederebbe davvero una visione lungimirante e condivisa“In Invimit giochiamo nella nazionale” sostiene Della Posta – e soprattutto una fiducia tra attori che tradizionalmente (e per qualche inefficienza storica) si guardano con una certa mutua perplessità. Eppure, si può pensare che quel patrimonio pubblico possa riattivarsi e rispondere ad attuali esigenze con nuovi modelli di progettualità:

“Il mandato originario di Invimit era abbattere il debito pubblico tramite dismissioni, la sfida invece è anche stata di immaginare progetti di sviluppo e valorizzazione.”

Per esempio, progetti di Senior Living che integrano residenza, servizi di caring (in partnership con compagnie assicurative) e spazi per l’infanzia in ex colonie estive per i bambini dei dipendenti pubblici, inutilizzate da anni (su concept, sia detto en passant, di Lombardini22). Al di là del caso specifico, che può essere una risposta puntuale a domande e sensibilità provenienti dalle nuove fasi della vita dovute alla longevità (come diceva Rosina), più in generale è una sfida che manda un segnale di desiderio di “riscatto” dell’attore pubblico, un nuovo (o ritrovato) posizionamento con un ruolo di guida e orientamento, di “apripista” dei processi, capace di far convergere urgenze pubbliche e soggetti privati in una possibile strategia (e bene) comune.

Nuovi format del consumo

Partire da luoghi dimenticati cui ridare vita caratterizza l’approccio di Eataly dalla sua prima sede. Oggi un nuovo format di retail park della famiglia Farinetti ne è la naturale evoluzione: un progetto che unisce alla filiera alimentare, il Food, i settori Fashion e Furniture unendo vendita, ristorazione e didattica in un edificio adiacente al primo Eataly torinese. Ne ha parlato Francesco Farinetti, Ad di Green Pea, raccontando un nuovo modello di consumo sostenibile, qualità che il format cerca di comunicare, e naturalmente perseguire, a 360 gradi. Ma anche riconoscendo che in qualsiasi operazione che si promuove “green” i rischi di greenwashing sono sempre dietro l’angolo, da affrontare con trasparenza della comunicazione e misurando azioni concrete.

L’impatto zero non esiste ma un nuovo consumo consapevole è possibile – dichiara –. Abbiamo selezionato 150 partner sulla base di un manifesto, con loro monitoriamo la storia di ognuno e verifichiamo gli obiettivi su tutta la filiera.”

Per Farinetti la sostenibilità è “un percorso da fare insieme”. Per questo inserire un settore didattico in un format di retail è un’operazione interessante: ogni percorso comune richiede diffusione di conoscenza, e una visione partecipata, condivisa e collettivamente intelligibile. Come costruirla?

Costruire reti di conoscenza

Quali strumenti e conoscenze abbiamo a disposizione per tale visione? E attraverso quale dibattito pubblico? Per Mirko Zardini, architetto, autore e curatore, in questa discussione dovrebbero essere strutturalmente coinvolte le istituzioni, in particolare quelle d’architettura incaricate della formazione, conservazione, divulgazione del sapere disciplinare: scuole, musei, biblioteche, archivi… Perché sono importanti? Perché grazie al bacino di idee che custodiscono ci aiutano a ragionare sul presente in modo più critico e consapevole. A condizione che ripensino il loro mandato, si aprano alla produzione di conoscenza e, soprattutto, si mettano in rete tra di loro.

Ci sono due modelli con cui le istituzioni possono operare: pensare l’architettura come prassi per la soluzione dei problemi (riconducibile al NAi – Netherlands Architecture Institute, di Ole Bouman); oppure, leggere l’architettura come parte dei problemi e del conflitto che investe tutta la società (è l’approccio del CCA – Canadian Centre of Architecture di Montreal di cui Zardini stesso è stato Direttore per 15 anni). In altri termini, l’architettura non offre soluzioni, ma all’interno del conflitto in cui è coinvolta

“l’architettura deve scegliere da che parte stare, quale direzione prendere, quali valori sostenere, ma soprattutto contribuire a ridefinire i problemi.”

Il che significa ridefinire il ruolo della cultura architettonica anche rispetto alla crisi attuale e alle idee che vengono proposte. La stessa “città dei 15 minuti” è un’idea non nuova e certamente più problematica e complessa (dalle visioni di Leon Krier e di Oswald Mathias Ungers per Berlino, al New Urbanism americano) di come oggi ci viene venduta. E la stessa didattica a distanza (DAD) può essere vista come un impoverimento rispetto ad altri modelli, ugualmente a distanza, esistenti nei nostri archivi delle idee: come la Open University, nata nel 1969, un sistema misto, aperto alle persone, ai luoghi, ai metodi… Allora rimettere in circolo le idee, interrogandole, e produrre conoscenza nuova dev’essere il mandato delle istituzioni, sempre con l’avvertenza che:

“Non ci sono soluzioni, ma modi diversi di porre le domande.”

Un’altra idea dell’abitare

Con lo stesso invito Johnny Dotti, imprenditore sociale e pedagogista, si è rivolto alla platea nell’intervento più dirompente e critico di tutto l’incontro. Porre nuove domande condivise significa uscire dalla luce rassicurante dei nostri schemi consolidati, dei “know how”, dell’iper-specializzazione, delle etichette con cui abbiamo progressivamente classificato negli ultimi cento anni le forme dell’abitare: alloggi (cioè “funzioni”) e appartamenti (ovvero “separazioni”), e poi social housing, co-living, student housing, senior living, luxury living… un’ubriacatura di formule che sembrano anteporre agli abitanti le “scatole” che li ospiteranno. Ma prima di fare le scatole, bisogna vivere la realtà degli abitanti:

“Prima vengono gli abitanti poi viene l’abitazione, perché è l’abitante che dà senso all’abitazione.”

Ovvero, bisogna costruire non appartamenti ma “nidi e nodi”, luoghi di intimità e attraversamento insieme, cioè case come contesti aperti che favoriscano le relazioni tra le persone. Serve una diversa idea dell’abitare.

La testimonianza che offre il modello più vicino alle parole di Dotti la porta sul palco Alessandro Mele, Direttore Generale di Cometa, innovativa realtà sociale di Como che si occupa di minori e famiglie attraverso l’accoglienza, l’educazione e il lavoro.

Una città nella città, un luogo dove abitare la bellezza” sono i termini con cui è descritta, così come “desiderio ed espressione di sé” descrivono l’aspetto formativo e lavorativo. Aspetti, questi, focalizzati anche nel tema degli ITS – nelle vesti di Vice Presidente di ITS Italy – che offrono bienni di specializzazione tecnica come contributo a colmare una carenza cronica, in Italia, di tecnici specializzati (in un Paese che è la seconda manifattura d’Europa con solo il 27,8% di giovani laureati tra 30-34 anni) ma in modo, precisa Mele, non addestrativo.

Tra visione poetica e concretezza, qui il linguaggio di FORESIGHT cambia, si fa più suggestivo (ma anche sferzante per la platea).

Se un’altra idea dell’abitare è possibile, non può che partire dagli abitanti, prima che dalle forme costruite.

Mai come qui sono appropriate le parole dell’architetto e urbanista danese Jan Gehl:

First life, then spaces, then buildings – the other way around never works.”

Ma per fare questo bisogna uscire dal cono di luce, sostiene Dotti, andare nel buio e rischiare percorsi che non conosciamo (o essere davvero contemporanei nel senso di Agamben: “Non lasciarsi accecare dalle luci del secolo e riuscire a scorgere in esse la parte dell’ombra”): in altre parole reimparare di nuovo ad abitare il mondo.

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