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Into the void, into the wild

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Gli spazi in-between e il divorzio dagli errori
5/8/2020
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Il discorso sullo spazio pubblico è per antonomasia un discorso sul vuoto, sugli interstizi del costruito, sugli spazi “in-between”.

Per Davide Ruzzon “è questo il momento di focalizzare la nostra attenzione di progettisti non sull'interno degli edifici ma sui vuoti urbani dove le persone si incontrano”. Ma anche su un vuoto più ampio: l’esterno delle città, le campagne, le aree “dimenticate” ma fortemente connesse con la città, quel “back of house” in cui si articola il retroscena del nostro spettacolo urbano. E, ancora di più, sul selvaggio! Ma qui con l’avvertenza etica di “non cambiare eventualmente nulla, che è design anche questo”: ritirandosi, conservando, proteggendo le biodiversità”.

Il che, di fatto, è un volontario decentrarsi dell’umano, approccio in piena sintonia con l’intervento forse più politico dell’incontro, quello di Harriet Harris sulla necessità di un “Post-Antropocene”: cioè di un divorzio (non avvenuto) dai più macroscopici errori precedenti della civiltà occidentale: “Come porre fine allo sfruttamento umano del pianeta, alla prevaricazione sulla natura e sugli altri esseri viventi? Come incrementare il peso politico delle rappresentanze periferiche? Come decolonizzare realmente il ‘sud del mondo’?”.

Il Covid ha amplificato le differenze, i pregiudizi e le discriminazioni regionali, colpendo le comunità più povere: gli obiettivi di giustizia sociale devono d’ora in poi essere un obbligo progettuale nell'agenda di ogni designer.

Scarica il Position Paper qui

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August 5, 2020
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August 5, 2020

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Il discorso sullo spazio pubblico è per antonomasia un discorso sul vuoto, sugli interstizi del costruito, sugli spazi “in-between”.

Per Davide Ruzzon “è questo il momento di focalizzare la nostra attenzione di progettisti non sull'interno degli edifici ma sui vuoti urbani dove le persone si incontrano”. Ma anche su un vuoto più ampio: l’esterno delle città, le campagne, le aree “dimenticate” ma fortemente connesse con la città, quel “back of house” in cui si articola il retroscena del nostro spettacolo urbano. E, ancora di più, sul selvaggio! Ma qui con l’avvertenza etica di “non cambiare eventualmente nulla, che è design anche questo”: ritirandosi, conservando, proteggendo le biodiversità”.

Il che, di fatto, è un volontario decentrarsi dell’umano, approccio in piena sintonia con l’intervento forse più politico dell’incontro, quello di Harriet Harris sulla necessità di un “Post-Antropocene”: cioè di un divorzio (non avvenuto) dai più macroscopici errori precedenti della civiltà occidentale: “Come porre fine allo sfruttamento umano del pianeta, alla prevaricazione sulla natura e sugli altri esseri viventi? Come incrementare il peso politico delle rappresentanze periferiche? Come decolonizzare realmente il ‘sud del mondo’?”.

Il Covid ha amplificato le differenze, i pregiudizi e le discriminazioni regionali, colpendo le comunità più povere: gli obiettivi di giustizia sociale devono d’ora in poi essere un obbligo progettuale nell'agenda di ogni designer.

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